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LE CLAUSOLE REGOLAMENTARI LIMITATIVE DELLE FACOLTA’ D’USO DELLE SINGOLE PROPRIETA’

(articolo di commento per la rivista La Proprietà Edilizia a cura dell’ARPE di Roma)
di Alberto Celeste – Magistrato

Si rivela frequente, nella realtà condominiale e, di riflesso, nelle aule di giustizia, il caso in cui il condominio insorge contro un condomino, rimproverando a quest’ultimo il fatto di aver adibito l’unità immobiliare di sua proprietà ad un uso vietato dal regolamento, laddove il singolo si difende adducendo che il divieto non è, per vari motivi, a lui opponibile.
La fattispecie de qua coinvolge delicate questioni giuridiche – su cui si è ripetutamente confrontata la magistratura (di vertice e di merito), con risultati non sempre collimanti – tra le quali si segnalano la natura giuridica delle clausole limitative contenute nel suddetto regolamento e la tecnica di redazione delle stesse disposizioni all’interno dell’atto di acquisto.
Il caso concreto, esaminato di recente dalla sentenza n. 24526 del 9 agosto 2022, dà lo spunto alla Cassazione per passare in rassegna i vari orientamenti interpretativi formatisi sul punto e per offrire una soluzione ragionevole agli operatori del settore, preoccupati a fronte delle incertezze applicative correlate soprattutto all’ipotesi in cui l’appartamento non venga acquistato direttamente dal costruttore dell’edificio.
La causa prendeva le mosse da un’azione avanzata nei confronti del proprietario del piano terra e di quello cantinato, affinché fosse condannato a cessare l’attività di pasticceria e di relativo laboratorio artigianale ivi esercitata, in particolare deducendo che tale attività non era ammessa dal regolamento di condominio, il quale vietava di adibire i locali di proprietà esclusiva ad uso (tra gli altri) artigianale.
Il Tribunale aveva accolto la domanda e l’appello proposto dal condomino soccombente veniva respinto dalla Corte distrettuale, sicché la causa arrivava in sede di legittimità, con epilogo che, però, ha ribaltato l’esito dei precedenti gradi di merito.
La tesi del condomino – accolta dai giudici di Piazza Cavour – si basava, in sintesi, sulla negazione che il regolamento condominiale, il quale vieti determinate destinazioni degli immobili di proprietà singola, attribuendo all’assemblea il potere di consentirne la deroga, abbia effettiva natura contrattuale, e nella conseguente postulazione che tali divieti possano operare solo se risultanti da una volontà espressamente e chiaramente manifestata in forma contrattuale e da un atto debitamente trascritto.
Al riguardo, si premette che, secondo il disposto dell’art. 1138 c.c. – per quel che qui rileva – il regolamento di condominio contiene le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione (comma 1); deve essere approvato dall’assemblea con la maggioranza stabilita dal comma 2 dell’art. 1136 c.c. (comma 2); e le relative norme non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, e in nessun caso possono derogare determinate disposizioni del codice civile (comma 2).
Non di meno, è ricorrente nella pratica giudiziaria che i regolamenti, ove formatisi con tecnica contrattuale, oltre a regolare l’uso delle parti comuni, contengano apposite clausole limitative dei diritti di ciascun condomino sulla porzione di sua proprietà esclusiva: si tratta, per lo più, di divieti di fruizione economica o di destinazione diretta ad attività (produttive, ludiche, sanitarie, ecc.) potenzialmente idonee ad arrecare pregiudizio/nocumento/disturbo alla primaria modalità di godimento abitativa.
Sotto quest’ultimo profilo, innanzitutto, gli ermellini sono costanti nell’affermare che i divieti ed i limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva devono risultare da “espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro ed esplicito, non suscettibile di dar luogo ad incertezze”, sicché l’individuazione della regola dettata, sul punto, dal regolamento di origine contrattuale va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, specie riguardo all’àmbito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale (v., ex multis, Cass. nn. 21307/2016, 19229/2014 e 9564/1997).
Si pone, però, la questione inerente al potere di stabilire il suddetto limite alla destinazione di un’unità immobiliare individuale, poiché le limitazioni all’uso delle parti esclusive non formano oggetto del potere regolamentare, così come (pre)costituito dal comma 1 dell’art. 1138 c.c., per cui qualora, non di meno, siano contenute in un regolamento, esse in tanto sono efficaci in quanto siano espressione dell’accordo di tutti i condomini, il che chiama in causa ciò che si intende con il sintagma “regolamento contrattuale”.
In proposito, i magistrati del Palazzaccio hanno chiarito, ormai da tempo, che le clausole dei regolamenti condominiali predisposti dall’originario proprietario dell’edificio ed allegati ai contratti di acquisto delle singole unità immobiliari, nonché quelle dei regolamenti condominiali formati con il consenso unanime di tutti i condomini, hanno natura “contrattuale” soltanto qualora si tratti di clausole limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni oppure attributive ad alcuni condomini di maggiori diritti rispetto agli altri, mentre, qualora si limitino a disciplinare l’uso dei beni comuni, hanno natura “regolamentare”.
Ne consegue che, mentre le clausole di natura contrattuale possono essere modificate solo dall’unanimità dei condomini e non da una delibera assembleare maggioritaria, avendo la modificazione la stessa natura contrattuale, le clausole di natura regolamentare sono modificabili anche da una delibera adottata con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 2, c.c. (v., per tutte, Cass. S.U. n. 943/1999).
Ne consegue la necessità della forma scritta, che limitatamente alle clausole del regolamento aventi natura contrattuale, è imposta dalla circostanza che queste incidono sui diritti immobiliari dei condomini sulle loro proprietà esclusive o sulle parti comuni oppure attribuiscono a taluni condomini diritti di quella natura maggiori di quelli degli altri condomini (v., in senso conforme, Cass. nn. 24146/2004 e 5626/2002).
Tuttavia – puntualizza il Supremo Collegio – il fatto che la medesima “tecnica contrattuale” (ossia il rinvio al regolamento predisposto dal costruttore contenuto nei singoli contratti di trasferimento delle unità singole) sia impiegata per dar vita ad un regolamento che contenga tanto le previsioni sull’uso delle cose comuni, quanto eventuali limitazioni incidenti sulle proprietà individuali, “non significa che tutto ciò che il regolamento stesso contenga sia, per ciò solo e ad ogni effetto, di natura contrattuale”.
Al contrario, dove si rinviene una disposizione regolamentare, nell’accezione propria del termine ai sensi del comma 1 dell’art. 1138 c.c., non c’è contratto o convenzione, come si desume dal comma 4 dell’art. 1138 c.c., e viceversa, sicché si condivide l’assunto dottrinale secondo il quale il “regolamento condominiale contrattuale puramente e semplicemente non esiste se non come formula verbale riferita ad una delle due possibili tecniche di formazione, piuttosto che alla sua natura”.
Invero, per quanto di uso giurisprudenziale corrente, l’espressione “regolamento contrattuale”, se presa alla lettera, costituisce quasi un “ossimoro” e si presta, quindi, ad un facile equivoco, consistente nel non considerare che il regolamento, ove disciplini anche “altro” che non sia l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, è in parte qua un contratto e non un regolamento, quale che sia la sua modalità di formazione, e cioè ad opera del costruttore e con riproduzione negli atti di vendita delle unità singole oppure in base all’accordo specifico, consapevole e totalitario, dei condomini tutti riuniti in assemblea.
Orbene, essendo un contratto, esso deve corrispondere ad una “tecnica formativa di pari livello formale e sostanziale”, che si traduce in una relatio perfecta attuata mediante l’inserimento, all’interno dell’atto di acquisto dell’unità immobiliare individuale, delle parti del regolamento aventi natura negoziale ed effetto limitativo della proprietà singola, non bastando, per contro, il solo rinvio al regolamento stesso.
In tale equivoco, purtroppo, incorre spesso la prassi degli affari, laddove non ci si cura di accertare se, nei singoli titoli di acquisto, le summenzionate limitazioni alla destinazione dell’unità immobiliare siano effettivamente ed espressamente riprodotte, e “non già semplicemente desumibili dal mero rinvio al regolamento che materialmente le contiene”.
Altra questione rilevante è accertare se il singolo abbia acquistato il proprio immobile dal costruttore o da un precedente condomino, atteso che, in tale sola ultima ipotesi, è necessario che le limitazioni di cui si discute, ove non espressamente contenute nell’atto stesso di vendita, risultino trascritte contro detta proprietà in data anteriore all’acquisto fattone; in tal caso, non è indispensabile la loro riproduzione nel contratto stesso, perché la necessità di tale accertamento scaturisce dal principio della relatività degli effetti negoziali, ai sensi dell’art. 1372, comma 2, c.c.
Ciò ha posto la questione del se e del come, in àmbito condominiale, si possa predicare un’efficacia ultra partes delle clausole che limitino l’uso o la destinazione delle proprietà individuali: sul punto, i giudici di legittimità hanno espresso, nel tempo, opinioni divergenti, avendole sostanzialmente ricondotte a tre diverse categorie giuridiche, ossia l’onere reale, la obligatio propter rem o la servitù.
Tuttavia, anche se solo di recente, il Supremo Collegio può ritenersi assestato sulla tesi per cui le restrizioni alle facoltà inerenti al godimento della proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio, volte a vietare lo svolgimento di determinate attività all’interno delle unità immobiliari esclusive, costituiscono “servitù reciproche”, e vanno approvate mediante espressione di una volontà contrattuale, e quindi con il consenso di tutti i condomini, mentre la loro opponibilità ai terzi, che non vi abbiano espressamente e consapevolmente aderito, rimane subordinata all’adempimento dell’onere di trascrizione (v., tra le altre, Cass. nn. 6769/2018, 23/2004, 5626/2002, 4963/2001, cui adde, da ultimo, n. 17159/2022).
Si è chiarito che l’art. 2659, comma 1, n. 2), c.c. – secondo cui, nella nota di trascrizione, devono essere indicati il titolo di cui si richiede la trascrizione e la data del medesimo – deve essere interpretato in collegamento con il successivo art. 2665 c.c., il quale stabilisce che l’omissione o l’inesattezza delle indicazioni richieste nella nota non nuoce alla validità della trascrizione, “eccetto che induca incertezza sulle persone, sul bene o sul rapporto giuridico a cui si riferisce l’atto”.
Ne consegue che, dalla nota, deve risultare non solo l’atto in forza del quale si domanda la trascrizione, ma anche il mutamento giuridico, oggetto precipuo della trascrizione stessa, che quell’atto produce in relazione al bene, sicché non basta che, nella nota di trascrizione, sia citato il regolamento di condominio c.d. contrattuale, ma occorre indicarne le clausole incidenti in senso limitativo dei diritti dei condomini sui beni condominiali o sui beni di proprietà esclusiva (v., soprattutto, Cass. n. 17493/2014).
La necessaria premessa di tale orientamento – accolto dalla Suprema Corte e al quale la sentenza in commento assicura continuità – risiede nell’ammissibilità sia di servitù atipiche, tipico essendo il solo genus così come regolato dagli artt. 1027 ss. c.c., sia di servitù reciproche, laddove queste ultime comportano che ciascun fondo è, ad un tempo, servente e dominante, data la corrispondenza biunivoca del peso imposto da un’apposita previsione contenuta nel regolamento contrattuale, a carico ed a favore di ciascuna unità di proprietà singola.
Trattandosi di servitù, la loro opponibilità ai terzi acquirenti di ciascuna unità singola dipende dalla trascrizione, prevista dall’art. 2643, n. 4), c.c., che deve riguardare la specifica convenzione che contenga la servitù stessa, con particolare richiamo alle clausole relative ed al loro contenuto.
Con la creazione del condominio, per effetto della prima alienazione, la servitù è costituita a favore e contro il primo immobile di proprietà singola, da un lato, ed a favore e contro i restanti fondi ancora invenduti, dall’altro, e così via finché, con l’ultima vendita, “ciascuna unità singola diviene servente e dominante verso ognuna delle altre”.
In assenza di trascrizione, può essere sufficiente anche il solo contenuto dell’atto di vendita, ma – puntualizza, infine, il Supremo Collegio – alla duplice condizione: a) che esso sia corredato della specifica indicazione delle clausole impositive della servitù, essendo del tutto insufficiente – come sopra rilevato – il mero rinvio al regolamento condominiale, e b) che le suddette clausole siano ripetute nei successivi atti di trasferimento, poiché, diversamente, torna ad operare il limite dell’art. 1372 c.c.

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