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Sottotetto non usucapibile

IL SOTTOTETTO CHE ISOLA L’ALLOGGIO SOTTOSTANTE NON E’ USUCAPIBILE DAL PROPRIETARIO DI ALTRA UNITA’ IMMOBILIARE

Una recente ordinanza del Supremo Collegio (n. 6114 del 24 febbraio 2022) ci offre lo spunto per interessanti considerazioni inerenti la consistenza, la natura ed il regime giuridico del sottotetto (porzione immobiliare, sita nell’edificio in condominio, particolarmente “appetibile”, soprattutto nelle grandi città).

La causa originava da una domanda, proposta da un condomino nei confronti di un altro proprietario di appartamento ubicato nello stesso stabile, per sentir dichiarare l’esclusiva proprietà, ex art. 948 c.c., del sovrastante sottotetto ed ottenere l’accertamento dell’insussistenza di qualsiasi diritto vantato dal convenuto.

Il Tribunale aveva rigettato l’originaria domanda, mentre la Corte d’Appello di Roma, ribaltando l’esito del giudizio, aveva dichiarato, invece, che la zona sottotetto sovrastante l’appartamento in oggetto era di proprietà dell’attore, condannando il convenuto alla restituzione dell’area e al ripristino dello status quo ante.

Il condomino soccombente proponeva ricorso per cassazione, ritenuto meritevole di accoglimento.

Gli ermellini premettono che l’affermazione del giudice di secondo grado – secondo cui “la porzione in contestazione era in buona parte impraticabile, trattandosi di struttura leggera in legno con interposta controsoffittatura in intonaco e rete metallica (c.d. camera a canne) non censita al catasto, né menzionata nei vari atti notarili” – contrastava con la descrizione dello stato dei luoghi effettuata dal CTU, il quale aveva evidenziato che la parte impraticabile fosse solo un piccolo ambiente, la cui estensione, dall’allegata planimetria catastale del sottotetto, era insignificante rispetto agli altri ambienti rivendicati dall’attore.

Del pari, veniva considerato fondato l’assunto del ricorrente, il quale censurava l’affermazione della Corte d’Appello, per cui, in assenza di autonoma individuazione della porzione controversa, le dimensioni e le caratteristiche strutturali dei locali rendevano queste “pertinenze” esclusivamente finalizzate ad isolare il sottostante immobile, laddove, invece, per accertare la natura condominiale o pertinenziale del sottotetto di un edificio, in mancanza del titolo, occorrere riferirsi alle sue caratteristiche strutturali e funzionali.

Pertanto, quando il sottotetto sia oggettivamente destinato (anche solo potenzialmente) all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune, può applicarsi la presunzione di comunione ex art. 1117, comma 1, c.c.; viceversa, allorché il sottotetto assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo, va considerato pertinenza di tale appartamento (v. Cass. 21 maggio 2020, n. 9383; Cass. 30 marzo 2016, n. 6143).

Nella specie, non risultava che la Corte territoriale avesse, sotto tale profilo, esaminato la planimetria del sottotetto, da cui, invece, risultava che trattavasi di locali ideati come soffitte e potenziali mansarde, solo considerando che le altezze degli stessi variavano da mt. 0,85 a 3,33, con punte intermedie di mt. 2,20 e 2,81; si erano così disattese le risultanze della CTU, privilegiando la dichiarazione del precedente proprietario dell’immobile, secondo il quale “si accedeva al sottotetto da una botola presente nell’appartamento (oggi dell’attore) e che lo stesso non era abitabile … l’altezza era decrescente, per cui in parte non si poteva transitare”, risultando, viceversa, dalla stessa perizia, che l’unico accesso praticabile era quello sito nell’appartamento del convenuto, costituito da una botola su cui era ancorata una scala in ferro di tipo retrattile di vecchia costruzione.

In secondo luogo, i magistrati di Piazza Cavour hanno stigmatizzato che la Corte territoriale non aveva tenuto in debito conto: a) l’uso che il convenuto aveva fatto da sempre dell’intera superficie costituente le soffitte, senza che mai nessuno avesse nulla a contestare; b) il rifacimento delle tabelle millesimali da parte del Condominio nel 1994, allorché la proprietà del convenuto veniva gravata, per la voce soffitte, di ben 48,93 millesimi, mentre nulla per le soffitte era attribuito alla proprietà dell’attore; c) il fatto che, dal 1994, il convenuto aveva sempre pagato le spese condominiali anche per le soffitte, e che lo stesso aveva effettuato nei locali in questione ulteriori opere di manutenzione straordinaria.

In punto di diritto, si è ribadito che il sottotetto di un edificio, quando assolve l’esclusiva funzione di isolare i vani dell’alloggio ad esso sottostanti, si pone in rapporto di dipendenza con i vani stessi, cui serve da protezione, e non può essere da questi ultimi separato senza che si verifichi l’alterazione del rapporto di complementarietà dell’insieme, sicché, non essendo in tale ipotesi il sottotetto idoneo ad essere utilizzato separatamente dall’alloggio sottostante cui accede, non è configurabile il possesso ad usucapionem dello stesso da parte del proprietario di altra unità immobiliare (v. Cass. 29 dicembre 2004, n. 24147).

Peraltro, in tema di accertamento della proprietà di un bene immobile per intervenuta usucapione, la circostanza che esso sia destinato a pertinenza rispetto ad un altro bene di proprietà dell’istante non fa venire meno la necessità di procedere all’accertamento richiesto, non potendo tale destinazione essere considerata, di per sé, alla stregua di un modo di acquisto della proprietà (v. Cass. 20 gennaio 2015, n. 869; Cass. 13 febbraio 2006, n. 3069).

Da ciò consegue – ad avviso dei magistrati del Palazzaccio, i quali sembrano, però, sconfinare in valutazioni prettamente fattuali – che doveva essere riconosciuto come provato il possesso esclusivo ed indisturbato da oltre 20 anni da parte del convenuto e, al contempo, esclusa ogni forma di possesso da parte dell’attore, in quanto proprietario dell’altra unità immobiliare sottostante.

Sotto il profilo più tecnicamente edilizio – anche se tali porzioni immobiliari vengono comunemente intese come sinonimi – va precisato che, nel sottotetto, il tetto di copertura del fabbricato segue una linea inclinata, mentre, nella mansarda, tale linea, partendo dal centro e proseguendo verso l’esterno, ad un certo punto “piega” bruscamente verso il basso, passando da 45 gradi a verticale, creando, al di sotto del tetto, uno spazio più arioso, accogliente ed accessibile anche vicino i muri perimetrali.

Sotto il profilo giuridico – mantenendo l’indagine nell’alveo civilistico – va ricordato che, nell’impostazione del codice civile, il sottotetto non risultava compreso esplicitamente nell’elenco dei beni che, ai sensi dell’art. 1117 c.c., “sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo”, ed era comunemente escluso dalla nozione tecnica di tetto, in quanto costituito dalla struttura, avente normalmente funzione isolante (da freddo, caldo, umidità), posta appunto al di sotto del tetto e, al contempo, al di sopra del solaio di copertura dell’unità immobiliare sita all’ultimo piano dello stabile.

Da tale prevalente funzione tesa a preservare dagli agenti atmosferici – tanto che veniva denominato anche camera d’aria, palco morto, intercapedine – svolta a favore della porzione di piano sottostante, derivava, di regola, la sua esclusione dal novero dei beni comuni; in altre ipotesi, veniva evidenziata la relazione materiale esistente tra cosa principale e cosa secondaria, attribuendo il dovuto rilievo al carattere differenziato del nesso “strutturale” fra il sottotetto medesimo e l’appartamento ad esso collegato da una scala, sicché, essendo una pertinenza della porzione di piano, il sottotetto veniva normalmente considerato di proprietà del medesimo titolare della porzione stessa.

Sul punto, va registrata una diversa prospettiva da parte della Riforma del 2013, la quale, al n. 2) del riformato art. 1117 c.c., ha espressamente inserito, tra i beni di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, “i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune” (si pensi a quei volumi, discretamente ampi e praticabili, che vengono utilizzati per permettere l’ingresso alle scale comuni o per allocarvi le macchine dell’ascensore, le pompe delle autoclavi, le centrali termiche e, in genere, quegli impianti che non possono ospitarsi in altri parti dell’edificio).

La legge n. 220/2012 ha forse voluto chiarire la natura di tale ambiente, atteso che, dall’entrata in vigore del codice civile del 1942, il relativo argomento si è rivelato terreno di accesa discussione, anche perché oggetto di un discreto business edilizio: trattasi, infatti, di un bene molto “allettante”, specie nei grandi centri urbani, attesa la possibilità che tale volume tecnico possa essere trasformato in mansarda abitabile – oltre che soffitta, deposito, stenditoio, ripostiglio e quant’altro – e ciò a prescindere da ogni conseguenza in ordine alla revisione delle tabelle millesimali e dalle considerazioni di carattere urbanistico.

In proposito, la risposta della giurisprudenza, specie di legittimità, è stata molto variegata in ordine all’appartenenza del locale sottotetto, risultando la netta contrapposizione, di solito, tra il proprietario dell’ultimo piano (o dell’unità immobiliare ivi posta) e gli altri condomini, tanto da creare un certo disorientamento tra gli operatori del settore: il dilemma sull’assetto proprietario, d’altronde, comporta conseguenze pratiche di notevole spessore riguardo sia all’utilizzo dello stesso bene sia all’imputabilità delle relative spese di conservazione/manutenzione, anche se va riconosciuto che i pronunciamenti sul punto risentono delle peculiari situazioni dello stato dei luoghi sotteso alle fattispecie esaminate.

Dunque, l’ambiente ricavato sotto il tetto dell’edificio in condominio, in modo da formare una camera d’aria limitata, in alto, dalla struttura del tetto e, in basso, dal solaio che copre i vani dell’ultimo piano, assolve, di regola, ad una funzione isolante e protettiva di questi vani e, quando non risulti una diversa destinazione o non sia diversamente disposto dal titolo, non è, quindi, oggetto di comunione ma costituisce pertinenza dell’appartamento dell’ultimo piano; se, invece, il sottotetto è di proprietà condominiale, il suo utilizzo esclusivo da parte del proprietario dell’ultimo piano richiede il consenso unanime di tutti gli altri condomini, che possono anche decidere di venderlo all’interessato, ma è sufficiente l’opposizione di un singolo condomini per impedire sia l’utilizzo esclusivo che la vendita.

Qualora il singolo condomino, senza o contro la volontà degli altri condomini, si comporta di fatto come se fosse il proprietario del sottotetto e manifesti apertamente la volontà di utilizzarlo per sé e lo annetta al proprio appartamento, escludendo fisicamente gli altri condomini dal relativo uso, egli potrebbe usucapire – diversamente da quanto opinato dalla Cassazione – il medesimo sottotetto trascorsi 20 anni, a meno che gli altri condomini abbiano proposto un atto interruttivo o, meglio, una causa nei suoi confronti (si pensi ad un’azione possessoria per grave turbativa o per spoglio se il condomino, realizzando i lavori, consapevolmente alteri la preesistente situazione di fatto).

A ben vedere, la soluzione non è agevole nelle situazioni border line, ossia quando tale ambiente è raggiungibile non dalle scale ma attraverso botole, o se il medesimo sottotetto non è abbastanza ampio per essere giudicato autonomo ed essere, quindi, utile a tutti, oppure quando il bene risulta di dimensioni ridotte ma ospitante impianti condominiali (come, ad esempio, la caldaia dell’impianto di riscaldamento o la centralina dell’antenna della televisione condominiale): per risolvere la questione concernente l’assetto proprietario, pertanto, bisogna valutare caso per caso, ma, a tal fine, la precisazione aggiunta dalla Riforma del 2013 non sembra, purtroppo, di grande ausilio.

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